Cuore e preparazione. I segreti di Paola Gianotti, la prima italiana che ha fatto il giro del mondo in bici
«Dopo un viaggio così bisogna ritrovare l’equilibrio». La funambola in questione è Paola Gianotti, economista torinese di 32 anni, la prima italiana a fare il giro del mondo in bicicletta. Da record. È la seconda donna a farcela dopo la ciclista greca Juliana Bhuring nel 2012.
Un’avventura sportiva in 22 Paesi nei cinque continenti. Non senza peripezie. Con tantissima tenacia. Dopo la partenza l’8 marzo scorso da Ivrea, la Gianotti è stata infatti costretta a una lunga sosta per un incidente stradale in Arizona. La frattura della quinta vertebra cervicale è stato un colpo duro, da cui però ha saputo rialzarsi. E soprattutto rimettersi in sella per raggiungere il suo traguardo a fine novembre.
Ha portato avanti, sulla sua schiena curva, un progetto legato alla sostenibilità ambientale, da «“postina” in bicicletta che porta un messaggio di affetto verso la Terra incontrando i bambini delle scuole». Ha chiamato la sua impresa Keep Brave. E con 29mila chilometri in 144 giorni il coraggio l’ha dimostrato tutto.
Qual è la differenza tra un viaggio e il giro del mondo?
Il viaggio è fine a se stesso. Questa è un’impresa sportiva che ha voluto portare un messaggio di sostenibilità. È stato un concentrato di emozioni e sfide.
Cosa o chi ha ispirato la tua impresa?
Da quando sono piccola ho sempre viaggiato. In camper, in giro per il mondo, osservavo i ciclisti che viaggiavano e ne rimanevo affascinata. Da grande ho finalmente capito che la bicicletta poteva unire le mie due grandi passioni: fare sport e viaggiare.
Hai chiesto qualche dritta alla greca Juliana Bhuring, l’unica che ha compiuto l’impresa prima di te?
Devo dire che c’è stata poca sportività. Ci siamo incontrate prima che iniziassi il giro ma non è stata molto disponibile…
Come e quanto ti sei allenata prima di partire?
Ho iniziato la preparazione un anno e mezzo prima della partenza, accompagnata da un preparatore. Ho seguito un programma di allenamenti di 4-5 ore al giorno, alternando alla bicicletta la piscina.
Ma per questo tipo di impresa la preparazione fisica conta al 50 per cento. Per essere mentalmente pronta mi ha accompagnata una psicologa per un anno. Il focus è stato sul credere a quello che si fa, nei propri sogni e obiettivi. È stato fondamentale lavorare sulla convinzione e motivazione. Mi sono preparata ripercorrendo situazioni del passato, perché questa esperienza è venuta dopo una serie di altre. È stato un naturale percorso di vita, dopo tanti viaggi legati allo sport – dal Kilimangiaro a una scalata di 7mila metri in Argentina -. È il coronamento di un sogno e di un percorso.
Il cronometro è un amico o un nemico?
Da una parte è un amico, perché misurare il tempo significa avere un obiettivo, cercare di fare di più. Dall’altra il cronometro è stressante, soprattutto quando non sei al top della forma fisica può essere mentalmente pesante. Sforare la tabella di marcia significa aumentare le prestazioni delle tappe successive. Non è facile.
È stato più difficile partire da Ivrea o rialzarsi dopo l’incidente in Arizona?
Partire da Ivrea è stato andare verso l’ignoto. Un’esperienza totalmente nuova in cui, anche logisticamente, tutto era da fare. La ripartenza è stata moralmente più dura, ma la carica e la voglia di continuare e di farcela era tanta.
In Sud America, soprattutto la parte finale tra il Cile e il Perù. È stato un percorso pesante. Il clima era davvero tosto, con una media di 45 gradi e tanto vento. Ho percorso molti dislivelli da 1500-2mila metri.
Quanto conta la determinazione e quanto il fisico?
A posteriori penso che il 65 per cento vada alla determinazione, il 35 al fisico.
Keepbrave è un’impresa sportiva, umana e sociale… delle tre cosa viene prima?
Sicuramente la parte umana è stata la più bella del viaggio. È un grande traguardo della mia vita sportiva, ma una forte componente di questa esperienza è data da tutte le persone che ho incontrato. E anche chi mi ha dato forza tramite i social.
Cos’ha significato avere un team? Ti stuzzica l’idea di un lungo viaggio in solitaria?
È stato un aiuto fondamentale e necessario per avere tempi da record. Poi sono anche le relazioni umane che si sono create durante il viaggio a darmi un grande appoggio.
Non nego però che mi piacerebbe anche l’esperienza di un viaggio in solitaria, una cosa diversa, senza tempi da rispettare.
Credi che l’ecosostenibilità sia un concetto universale?
Sì. Certo, alcuni Paesi, soprattutto del Nord Europa, sono più avanti e attenti alla sostenibilità ambientale. In altri, nel Sud America e in Asia, la questione è meno sentita e le priorità sono altre, ma in ogni luogo ho potuto incontrare un concetto simile.
Guardare e pensare all’Italia da lontano ti fa venire voglia di tornare?
Prima di partire pensavo che Nord America e Australia fossero paradisi. Ora non mi muoverei più dall’Italia. Di problemi ce ne sono tanti, e si vedono. Però qui c’è un concentrato di cose meravigliose: dalla storia alla cultura all’arte. E gastronomia, natura, paesaggi. Sono tutti elementi che mi portano a pensare di poter sviluppare qualcosa qui. Un messaggio ai miei coetanei trentenni è di non scappare.
Quando ho avuto l’incidente in Nord America ho pensato che la sanità italiana fosse un paradiso terrestre. Lì mi hanno chiesto 85mila dollari per una notte in pronto soccorso e un giorno di cure. Fortunatamente avevo l’assicurazione. Ma restano le grandi disparità tra ricchi e poveri. Se non hai l’assicurazione sanitaria lì ti lasciano morire. Sembra il Paese della libertà, e invece…
Ora terrai un po’ in garage la bicicletta?
In realtà proprio ieri mi è arrivata la bicicletta nuova.
Silvia Ricciardi