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Qualche anno fa avevamo parlato di un gruppo di cicliste afghane che sognavano non solo il tour de France, ma semplicemente poter pedalare liberamente nel loro Paese. Lo scorso anno era stato compiuto un ulteriore passo in avanti con l’organizzazione di una competizione ciclistica con la partecipazione di una quarantina di cicliste. Ma dopo quest’estate la bicicletta da simbolo della lotta per i diritti delle donne afghane è diventato strumento per una condanna a morte. La bicicletta infatti, se per alcune potrebbe essere modo di uscire fuori dal Paese, per altre è uguale ad una sentenza di morte. I talebani che hanno ripreso il potere, hanno messo al bando le biciclette perché le donne non possono praticare un’attività sportiva considerandola una cosa indecorosa, nonché marchio d’infamia, poiché l’uso della bici è associato alla perdita della verginità. Una sessantina di cicliste sono riuscite ad emigrare in altre nazioni, ma molte sono rimaste in patria.
Il diritto alla bici
Anche in Occidente la bicicletta è stata simbolo di libertà e diritto conquistato a fatica dalle donne. Nell’Ottocento, il biciclo, quello con la ruota anteriore molto più grande di quella posteriore, era inaccessibile per le donne a causa dei vestiti in voga all’epoca. Cosa che si protrae anche più tardi nel Novecento, quando gli abiti erano ancora un limite. La rivoluzione iniziò quando alcune donne iniziarono ad indossare i “bloomers”, pantaloni che riprendevano lo stile delle donne turche e questo causò uno scandalo. I pantaloni, secondo “il senso comune” avrebbero minato non solo la femminilità delle donne, ma le avrebbero indotte a stare più tempo fuori casa e ad intraprendere una vita di facili costumi. Si diffuse anche l’idea che andare in bicicletta facesse male alle donne e portasse a depressione e palpitazioni del cuore.
Ricordiamo i loro nomi
Nella storia ci sono nomi di donna in bici da non dimenticare, due tra tutte Anne Londonderry Kopchovsky che nel 1894 fu la prima donna a fare il giro del mondo in bicicletta e Alfonsina Strada, la prima tra le donne professioniste che nel 1924 partecipò al Giro d’Italia.
E oggi?
Sebbene oggi il ciclismo e il cicloturismo “in rosa” siano ampiamente diffusi almeno in Occidente, ci sono ancora dei limiti da superare e “strada da pedalare”. Nella primavera di quest’anno sono stati lanciati due diversi progetti a livello europeo, il “Women in Cycling” e il “Womxn of Colour Cycling Collective UK”, due diverse iniziative con uno scopo comune, dare una visibilità sempre maggiore e una voce sempre più forte alle donne nel ciclismo. Nel primo caso si è creato un network di donne per supportare le donne nel settore ciclistico, non solo per aumentarne la presenza in gara, su pista o in strada, ma anche per vedere più figure femminili in tutti i livelli del settore dalle aziende, al marketing, alle vendite, alla comunicazione. E’ stata creata per questo una piattaforma di crescita e sostegno, che permetta lo scambio di idee, favorisca le collaborazioni, crei legami e promuova progetti.
La WCCC – Womxn of Colour Cycling Collective nasce per ispirare e motivare le donne di colore, ogni colore, a salire in bicicletta. Un’idea nata in un bar per ciclisti di Londra in cui è emersa la necessità di vedere più donne di colore in bici nelle strade inglesi. Da poco eletta presidente della fondazione Jenni Gwiazdowski ha da subito voluto sottolineare che la WCCC sia uno spazio sicuro, una rete in cui persone che si sentono sole e isolate, possano essere accettate per quello che sono.