Altra puntata dell’avventura in bicicletta nelle terre di Apollo e dell’Oracolo di Delfi.
La tappa di oggi si apre nel disagio: abbiamo almeno due problemi da risolvere, ne parliamo durante la colazione all’ombra del gigantesco ponte che collega Rio ad Antirrio, sulle due sponde opposte dello Stretto di Corinto. Le navi in partenza costante fischiano con consumata naturalezza, quasi fossero parte integrante del paesaggio da sempre.
Il primo problema riguarda l’attrezzatura di Massimo: già partito con la sua Basso da corsa con l’intenzione di tornare la sera della prima tappa a Velletri, si è ritrovato con quasi mille chilometri nelle gambe, in un paese straniero e con un cambio minimale che viene lavato minuziosamente a ogni fine tappa: memorabile diverrà la sua canottiera gialla, simbolo univoco della tensione tragica dell’umanità verso mete irraggiungibili e improvvisate. Già fiaccato dalla caduta di due giorni fa, il Nostro ha squarciato il copertone anteriore nel buio pietroso della tappa precedente, e non gli è possibile proseguire così, ogni metro può causare una nuova foratura.
Il resto della compagnia inoltre comincia a essere stanco, e i 107 km che ci separano dalla meta di oggi, Delfi, sono tanti soprattutto a livello mentale e di tempo. Occorre quindi trovare un negozio di bici e qualche informazione specifica sulle tratte degli autobus di queste zone. La posta in gioco è alta, il Santuario di Apollo a Delfi, quindi occorre stringere i denti – questa potrebbe essere la prima delle tappe davvero impegnative.
Usciamo da Antirrio lungo il mare, e arrivati a Nafpaktos decidiamo di dividerci per reperire risorse e guadagnare tempo: Massimo, consigliato da ciclisti tutinati di passaggio, insieme a Fiorella e Laura trova al secondo tentativo (Nafpaktos ha ben due negozi di bici) un copertone 23 da corsa. Invece io e Agnese cerchiamo di capirci qualcosa con gli orari degli autobus: dopo risposte enigmatiche o scortesi, in un bar un tizio mi imbocca con i suoi dolcetti mentre mi indirizza verso la compagnia di autobus.
” This is for your lady”, mi dice indicando Agnese che aspetta fuori alle bici. Lo lascio nel suo errore e incasso la doppia razione. Veniamo così a sapere che esiste una linea bus lungo tutta la nostra tappa di oggi, da Nafpaktos a Itea, e di lì una coincidenza per Delfi alle 20,45. Decidiamo quindi dii pedalare fino a poco prima di quell’ora, in modo tale da valutare se e quando salire sul bus.
Risolti questi due problemi, possiamo rilassarci poggiando lo sguardo su Nafpaktos: un paese vivace e ospitale, con un porto delizioso circondato da mura medievali, pieno di gente accogliente. Un’anziana signora sfida il traffico in bicicletta, percorrendo con eleganza l’inutile bike lane costantemente invasa da veicoli.
E proprio qui a Nafpaktos iniziano le buone coincidenze e presagi: sono proprio di fronte alla statua del Tempio di Asclepio quando ricevo per telefono buone notizie mediche.
Agnese nel frattempo entra in una bottega incuriosita dal suo contenuto: solo selle e finimenti per cavalli, disposti in maniera minuziosa sugli scaffali o pendenti dal soffitto.
L’artigiano si chiama Konstantinos, e parla un discreto italiano: ha vissuto e lavorato a Napoli molti anni fa. Racconta le sue esperienze con pacatezza e una punta di sobria malinconia, gli italiani per lui sono “cugini” ma non ha avuto soltanto buone esperienze: in porto, ci dice, la gente ha spesso modi prepotenti e arroganti.
Raggiunti gli altri, ci mettiamo in cammino con l’umore più alto di prima. La strada di oggi è meravigliosa, una delle tappe più belle, e si snoda a zigzag lungo panorami incredibili a picco sul mare. Alla nostra destra, il blu dello Stretto viene interrotto soltanto da isolette sparse qua e là e dalle coste settentrionali del Peloponneso.
Durante una sosta a un bar con terrazza sulla scogliera, dopo aver consumato una limonata chiedo al corpulento proprietario se è possibile acquistare una delle bandierine con la bandiera greca alle pareti. Lui me ne porge una e rifiuta ogni tentativo di pagarlo: “Italian … good people!! No money!”.
La sua giovialità raggiunge il culmine quando decidiamo di farci una foto insieme, fino a farsi goliardia: “You… Italian. .. Berlusconi! Gynaikes, gynaikes! (donne, donne)”.
E impariamo a nostre spese che in alcuni angoli d’Europa i luoghi comuni da barzelletta rimangono attaccati come certe cozze agli scogli, e sono davvero difficili da ripulire.
Per pranzo ci fermiamo ad Agio Nikolao, San Nicola: una manciata di case bianche su una baia dalle acque cristalline, un ristorantino di pesce con terrazza di legno proprio sul molo, e un’isoletta minuscola a un centinaio di metri, proprio al centro della baia.
Sull’isoletta, a malapena lo spazio per una chiesa bianca e un roseto. E come si può rinunciare a una nuotata fino all’isola, per poi suonare la campana della chiesa deserta allertando tutti i fedeli del paese, mentre la tua frittura viene preparata?
Ripartiamo col fresco del mare appiccicato addosso e al tempo stesso col fiato denso di tzatziki: da quando ci troviamo sul territorio greco il cibo è diventato un problema compulsivo per noi, e abbiamo assoluta necessità di non far abbassare il livello di tzatziki nel sangue.
Nella luce tiepida del pomeriggio proseguiamo nella vana attesa della pioggia, prevista per le cinque: purtroppo non ce la fa, ma le nuvole e il vento ci regalano comunque una giornata più fresca e piacevole.
E’ ormai quasi il tramonto quando passiamo Galaxidia e arriviamo a Itea: riusciamo ad arrivare al terminal appena un quarto d’ora prima della coincidenza per Delfi, alle 20.30: il tempo necessario per prendere le dovute, incaute decisioni. Mancano 12 km all’ombelico del mondo, di cui 5 o 6 di salita, e ci tengo troppo a non spezzare la tappa con un passaggio motorizzato, sia pure con la giustificazione del buio: decido, solo o no, di farmi il primo tratto in notturna del viaggio. Mentre gli altri ragionano se cercare da dormire giù a Itea oppure salire col bus, Fiorella ha la sconsiderata idea di accompagnarmi.
Il tempo di montare tutte le luci a disposizione, inforcare occhiali e casco e darsi indicazioni sul campeggio da raggiungere su con gli altri, e già pedaliamo nel buio verso le montagne.
Il primo tratto di strada è un rettilineo a scorrimento veloce, con una corsia di emergenza molto larga. Il traffico è rado, pare si scorra bene e in relativa sicurezza. Nei poderi accanto alla strada, cani da guardia attendono il momento preciso in cui siamo più vicini per spaventarci coi loro latrati disperati. Primi segni dei guardiani.
Poi, al bivio per Delfi inizio a svoltare a destra, Fiorella è una decina di metri dietro di me. Abbaiare in lontananza, no, stavolta è più vicino e rabbioso, passi frenetici nel buio calpestano il terreno con ansia, e vedo due occhi luminosi. Ma non è Ivan il Terribile Trentaduesimo come nel film di Fantozzi, bensì un mastino enorme con la bava alla bocca che mi punta correndo a perdifiato.
Un altro cane di dimensioni minori ma di pari aggressività si mette all’inseguimento di Fiorella, costringendola a proseguire diritta verso Atene. Io spingo sui pedali più che posso, 30 all’ora, 35 all’ora, forse 40, mi giro e le zanne luccicano a pochi passi dietro di me, spingo ancora, le zampe scalpitano sull’asfalto, non mi molla, passa una quarantina di interminabili secondi e finalmente Cerbero allenta il passo e si ferma.
Col cuore ancora a mille, ricevo la chiamata di Fiorella: i due guardiani sorvegliano l’imbocco della svolta per Delfi, è rimasta sulla strada principale e non sa cosa fare.
Blocco un signore sulla cinquantina in costume da bagno, che scende in bici da Delfi nell’oscurità. Mi mostra il taser col quale gira, è abituato a girare in bici di notte e i cani randagi sono spesso un problema dal quale guardarsi. Nel frattempo Fiorella è riuscita a passare, i due cani si sono allontanati nella boscaglia, e ci ricongiungiamo dopo aver messo in guardia il signore della loro presenza.
Ci ritroviamo ora in un fitto bosco di ulivi dove regna un silenzio rassicurante. Una nottola ci guida col suo volo curvilineo.
Rimugino un po’. Troppo coincidenze.
Quei due cani erano dei guardiani al luogo sacro che stiamo per raggiungere. Cane, Cerbero, Inferi. Chi abbiamo fatto incavolare? Continuo con le tessere del puzzle: perché Ade ce l’ha con noi?
Penso alla mia amica Adelinda, nata il 2 novembre, che si presenta spesso come Ade per brevità: i suoi genitori Michele e Rosa ci hanno ospitato a Gravina di Puglia una settimana fa, e noi ci siamo presentati a mani vuote, infrangendo il sacro vincolo dell’ospitalità. Eccolo, il motivo!
Del resto da quando abbiamo attraversato l’Acheronte, a Mesopotamos, il dio Ade mette sul nostro cammino dei vecchi ubriaconi, che con la loro ospitalità e fiumi di birra ostacolano il nostro cammino verso la meta. La vecchiaia, del resto, è l’età più vicina alla morte.
Nell’uliveto la calma è innaturale, anzi sovrannaturale: l’ulivo, la nottola che ci guida… è stata Minerva a salvarci, o meglio Atena, la nostra destinazione. Tutto ora nel bosco sembra dirci che possiamo stare tranquilli.
Inizia la salita: altri cani abbaiano in lontananza, ma sono lontani. A metà della scalata attraversiamo il bellissimo paese di Chrisso, con le sue taverne illuminate alla bene e meglio dai bracieri che disegnano forme strane sulla pietra.
L’adrenalina lentamente scende.
Nella notte nuvolosa sbuca all’improvviso la luna. Nei vicoli di Chrisso, dei gatti sembrano volerci guidare verso la meta. La luna… mi viene in mente Iside, ma cosa c’entra? E’ egiziana. Un attimo, Iside è stata spesso identificata con Artemide, sorella di Apollo, padrone di casa. E il gatto è animale cacciatore proprio come lei, e non è amico dei cani. Mi sa che le due dee ci hanno preso in simpatia.
Raggiungiamo con l’ultima pendenza il campeggio Delphi, dove ci raggiungono poco dopo gli altri, sbarcati dal bus.
Mi sa che nei prossimi giorni ci tocca un quadruplice sacrificio: innanzitutto ad Apollo, protettore di Delfi; poi ad Atena, nostra destinazione e ispirazione, e ad Artemide, nostra guida e sorella di Apollo. Ma è ancor più urgente placare l’ira di Ade: ricordo un promessa fatta durante la cena da Rosa, mamma di Adelinda.
“Visto che le piacciono tanto le boule de neige e le colleziona, gliene mandiamo una da Delfi!”
Testuali parole, dette una settimana fa. Ecco la chiave per far sì che non ce se magnino li cani.
P.s. quest’accesso di misticismo pagano è dovuto alle cariche di questo luogo, e al contatto col paesaggio notturno dei monti vicini: pedalare nell’oscurità tra i filari di cipressi e gli ulivi, con le stelle come unico tetto, è un atto che necessita di risposte e spiegazioni mitologiche.
Altre soluzioni non me ne vengono, così crollo nella tenda montata alla meno peggio al buio.
L’Oracolo di Delfi e Apollo
L’ombelico del mondo, l’òmfalos, il centro dell’orbe terracqueo per i greci, lì dove si incontrarono le due aquile fatte partire in volo dai due punti estremi del globo. Delfi, il più importante luogo religioso dell’antichità, per la quale passava qualsiasi importante decisione individuale o politica, lì dove si giungeva da ogni parte del mondo antico per conoscere il volere del dio Apollo Mantico, il profeta.
La storia della sua nascita è legata indissolubilmente alla figura di Apollo, dio della musica, dell’arte, della luce e della razionalità, capace di grande generosità come di tremende vendette, scagliate tramite le sue implacabili frecce. E come moltissimi altri miti, la nascita di Apollo è frutto di uno degli amori clandestini di Zeus, che dopo la creazione del genere umano non disdegnò né ninfe né donne mortali, un po’ a casaccio.
In questo specifico, la sua scelta cadde su Latona, che diventò suo malgrado madre di Apollo e di sua sorella Artemide: per l’occasione, il padre degli dèi mutò sé stesso e la donna in quaglie – chissà se l’omonimo salto deriva da qui.
Era, piuttosto che prendersela col marito, preferì sfogare la sua ira contro la poveretta, che fece inseguire in ogni parte del mondo dal serpente Pitone, essere primordiale connesso alla creazione stessa del mondo, e stabilì che non potesse più partorire in alcun luogo dove brillasse il sole.
Apollo nel frattempo cresceva in fretta, benché nato al settimo mese: nettare e ambrosia fanno miracoli, e dopo quattro giorni il pargolo chiedeva a gran voce arco e frecce, che Efesto in persona gli fornì.
Aveva infatti urgenza di prendere le difese della madre: il dio si recò quindi sul monte Parnaso, dove viveva Pitone, e lo ferì con le sue frecce. Il serpente si rifugiò presso l’oracolo della Madre Terra a Delfi, ma Apollo osò inseguirlo fin dentro il tempio e lo finì dinanzi al sacro crepaccio.
La Madre Terra, sdegnata per questo affronto, protestò presso Zeus, che impose ad Apollo di farsi purificare, dato che aveva ucciso un animale sacro: per tutta risposta il dio, sfidando apertamente il volere del padre degli dei, si recò da Pan, e dopo avergli strappato con l’adulazione i segreti dell’arte divinatoria, si impadronì dell’oracolo delfico e ne costrinse la sacerdotessa – che all’epoca era detta pitonessa – a servirlo.
Da allora l’interprete del volere del dio è la Pizia, sacra a “colui che vinse Pitone”, che rivela le sue profezie spesso oscure a chi la consulta. Presa da estasi divina, la donna viene posseduta dallo spirito di Apollo e in uno stato di catalessi emette una sequela di suoni che vengono poi tradotti in versi. La sacerdotessa era solitamente una donna oltre il cinquantesimo anno di età: in nome del suo ufficio divino aveva l’obbligo di vivere separata dal marito, e doveva indossare abiti da fanciulla: nell’umido silenzio del tempio, la Pizia entrava per prima nell’Adyton, la camera interna. del tempio. Qui siedeva sul tripode sacro al dio, e aspirava esalazioni luminescenti, che le provocavano l’estasi mistica. Non si sa di cosa si trattasse di preciso, se non che provenivano da una voragine nella terra porosa.
Qui passò Laio, che ebbe la funesta predizione su suo figlio Edipo, la cui storia conosceremo tra una manciata di chilometri e molti saliscendi; qui Agamennone ebbe la certezza di dover scegliere tra la vita di sua figlia Ifigenia e un’insensata guerra durata dieci anni e molto sangue; qui Eracle conobbe le sue origini divine; e qui Laio stava tornando per conoscere la soluzione all’enigma della Sfinge, quando s’imbatté in suo figlio; sempre qui Edipo scoprì orribili verità che mai avrebbe voluto conoscere. Qui, sempre qui, nell’òmfalos del mondo.
Foto di Agnese Samà
Delfica
Nell’aria dei cedri lunari,
al segno d’oro udimmo il Leone.
Presagio fu l’ululo terreno.
Svelata è la vena di corolla
sulla tempia che declina al sonno
e la tua voce orfica e marina.
Come il sale dall’acque
io esco dal mio cuore.
Dilegua l’età dell’alloro
e l’inquieto ardore
e la sua pietà senza giustizia.
Perisce esigua
l’invenzione dei sogni
alla tua spalla nuda
che di miele odora.
In te salgo, o delfica,
non più umano. Segreta
la notte delle piogge di calde lune
ti dorme negli occhi:
a questa quiete di cieli in rovina
accade l’infanzia inesistente.
Nei moti delle solitudini stellate,
al rompere dei grani,
alla volontà delle foglie,
sarai urlo della mia sostanza.
(Salvatore Quasimodo, Delfica)