Quattordicesimo giorno in bicicletta al sito archeologico di Delfi
Sono giorni che pedaliamo come dannati, inseguiti dalle ire di dèi vendicativi e suscettibili, tentando di interpretare i loro segni tra le indicazioni stradali e gli incidenti di percorso. Giorni frenetici, senza un punto fermo, tanto che la terra intorno ai picchetti delle tende non fa in tempo a seccarsi che già li estraiamo in cerca di altri chilometri. La gomma dei copertoni ha raccolto la polvere delle pietre laviche partonopee e delle statali irpine, degli sterrati lucani e delle ghiaie pugliesi, e ci portiamo appresso i segni di mille scenari differenti, tutti percorsi con gli stessi pezzi di ferrovecchio (tranne la Orbea di Agnese, che è di carbonio).
Occorre trovare ristoro e ispirazione nel luogo più antico del mondo, il centro della terra, il più importante santuario dell’antichità tutta: Delfi.
Al camping Delphi decidiamo di rimanere per due notti, e di dimenticare per un giorno la liturgia assolata di orari stretti, chilometri e pendenze. Chiamare ancora una volta casa un luogo nuovo. E dopo una notte dominata dall’oblio, ci concediamo un mattino senza sveglia forzata, indugiando a lungo nelle tende protette dagli ulivi, al sicuro dai raggi del sole e dai cani randagi. E poi, va detto, il campeggio ha anche la piscina; il proprietario parla un buon italiano e ha i modi affabili e sornioni di chi è abituato a trattare coi turisti, il suo occhio chiaro e furbo guizza in cerca di ogni possibile modo di mettere a proprio agio gli avventori.
In tarda mattinata, inforchiamo le bici per raggiungere la città di Delfi, a 4 km di tornanti più in su: scariche del loro bagaglio usuale, le nostre cavalcature ci danno una sensazione di ingovernabilità: davvero erano così leggere?
Maciniamo la salita con l’allenamento del migliaio di chilometri percorso finora come animali da soma, tronfi di leggerezza e agilità.
Delfi è un borgo piccolo e turistico, che campa sulla fama del suo oracolo: lo testimoniano i nomi di hotel e ristoranti, tutti a tema mitologico: Dionysos, Hermes, Apollon. Le case dell’abitato si insinuano in un enorme crepaccio lungo e stretto, trovando spazio negli anfratti offerti dalle rocce aguzze, tra salite e discese vertiginose.
Negozi di souvenir propongono gli stessi gadget seriali, trasfigurando Delfi nell’aspettativa stessa del turista standard.
Ma il santuario, quello no: è lui da secoli, un luogo sacro e inviolabile, intoccabile tranne che dal Sole – che poi sarebbe Helios, cioè Febo Apollo stesso, la luce accecante e vitale che ne sbiadisce i colori.
Entriamo nel sito archeologico, e le prospettive diagonali acuiscono da subito la sensazione di solennità: stralci di colonne doriche erette tra cumuli di pietre gialle. I resti del tempio di Apollo dominano la vallata. A pochi passi, il tripode sacro al dio: una colonna di bronzo intrecciato che disegna spirali irregolari e perfette al tempo stesso, immagine della follia e della lucidità delle profezie della Pizia.
A proposito della Pizia: una roccia granulosa, di colore rossastro, è indicata dai cartelli come “Sybil Rock”: si tratta del luogo dal quale la Pizia pronunciava i suoi oracoli, tra i quali secondo la tradizione ci fu anche la distruzione della città di Troia.
Ogni pietra parla. E’ doveroso tacere, e ascoltare.
Perché qui, e non sul monte vicino?
Perché sì.
Le energie, il cielo stellato sopra, la forma particolare del crepaccio. L’ombelico del mondo non ha bisogno di spiegazioni.
Torniamo poi alla realtà, fatta di esercenti opportunisti e granite a prezzi stratosferici. Il turismo non sembra essere fatto per la Grecia: o lo schivano con la generosità, regalando i loro tesori col sorriso tipico di chi viene da un mondo rurale, oppure lo sfruttano con arroganza, come in questo caso.
Quando ci avviciniamo al museo, un enorme cagnone nero presidia l’ingresso: ci vede arrivare, drizza la coda, si alza e poi si lascia cadere a terra come morto, affranto.
Dopo ieri sera, Ade ci ha perdonato. O perlomeno ci tiene d’occhio, ha visto che abbiamo comprato un souvenir per la mamma di Adelinda ed è convinto dei nostri buoni propositi. Da qui in poi incontreremo moltissimi cani, randagi e non, e (quasi) tutti si dimostreranno pacifici o indifferenti.
Dopo il resto del pomeriggio passato tra la piscina, i panni da lavare e il relax, decidiamo di scendere per cena al paese più in basso, Chrisso. Per farlo, niente bici: 3 chilometri a piedi con le torce nel buio degli ulivi, la notte è stellata e Ade s’è placato.
A parte qualche scherzetto, certo: un enorme mastino dietro un cancello ci vede arrivare, corre all’impazzata nel buio fino all’entrata verso noi e sbatte le zampe sulle grate con tutta la forza accumulata dalla corsa, facendone tremare le ante. Meno male che sono solide.
Arriviamo in una taverna su una terrazza panoramica, la vallata è lì dietro ma noi possiamo soltanto immaginarla dietro quella massa nera e umida. L’unico cameriere della sala si fa in quattro per noi: corre da un lato e l’altro della strada con pesanti vassoi in mano, facendo la spola tra le cucine e la terrazza coi tavoli. Anche stavolta non sappiamo contenerci: l’ingordigia prevale al momento delle ordinazioni sul menu, e le quantità si rivelano molto più generose delle aspettative da stomaco affamato.
Quintali di agnello e souvlaki ci tramortiscono, annaffiati dal vino rosato che scende giù con dolcezza traditrice. Due anziani al tavolo accanto ci placcano quando lasciamo i tavoli, ci sorridono, ripetono l’adagio che sentiamo ormai da molti giorni non appena capiscono che siamo italiani: “Italiani Greci, una fazza una razza!!”
Insistono per offrirci ancora da bere, vorrebbero pagarci una bottiglia intera ma ci limitiamo a bere un paio di bicchieri io e Massimo.
Sulla strada del ritorno, ci fermiamo a una taverna sgangherata: cucina e girarrosto a vista, locale spoglio, tre o quattro tavolini nella piazza di fronte, al fresco.
Visto che il posto ci aveva già attirato entrando in paese, decidiamo di concederci il bicchiere della staffa: il ragazzo al braciere, sorriso cordiale dietro gli occhiali spessi, pare l’unico normale della famiglia che gestisce il posto. Suo padre, un panzone alcolista dal baffo unto e dalla canottiera color grigio lercio; sua sorella ha uno sguardo ancor più inquietante per il suo voler essere rassicurante, e un sorriso stampato a contorno del suo strabismo estremo, un occhio volge a Delfi e l’altro a Tebe. Sua nonna è una donna magra e mascolina, dalle ossa smunte e dai capelli sciolti, lunghi e grigi. Vede il pacchetto di Marlboro di Massimo, lo prende in mano ammirata, come fosse il monolite di 2001 Odissea nello Spazio. Tabacco così non ne ha mai visto, mi sa.
Massimo gliene offre un po’, lei si gira una sigaretta e comincia a spipacchiarla con estrema soddisfazione. Finita quella, vedendo la sua espressione, lui le fa cenno di farsene un’altra. La vecchia non ci pensa due volte e ghermisce il pacchetto. Nel frattempo arrivano i liquori: non hanno ouzo, ci propongono tsipouri: molto più pesante, quel tanto che basta a mandarci a vedere le stelle di San Lorenzo a quattro zampe, a bordo piscina.
Reportage di Claudio Mancini
Foto di Agnese Samà