Il secondo giorno della #Romatene: arrivo a Minturno
L’alba ci coglie tra i materassini e i gatti sparsi qua e là sul pavimento di casa di Alessandra, dopo una notte semiinsonne passata a fare i conti con l’adrenalina da inizio viaggio. Evidentemente l’opera di corruzione/purificazione della Strada non ha ancora avuto effetto su di noi.
Il caldo di oggi è mite e ragionevole, così decidiamo di passare la parte della mattinata in spiaggia: sempre Alessandra ci scorta nel suo mare, quello suo e basta, quello da difendere dall’invasione domenicali dei cafoni delle grandi città. E lei che è originaria di Bella Farnia, frazione di Latina, è custode morale della Duna Litoranea di Sabaudia.
Ci mettiamo quindi in cammino per la nostra seconda tappa.
Agnese si sbilancia ogni volta che molla una mano dal manubrio per segnalare una svolta, risentendo dell’eccessivo carico anteriore: “Non la devi mette la freccia quando vai in bici”, dice Massimo. “Come no, scusa” “Ma sì, così gli fai capire dove vuoi andare e loro ti possono mettere sotto meglio”
Dopo un tratto rettilineo tra gli eucalipti e i camion giungiamo nei pressi di Torre Paola, all’ombra della rassicurante mole del Monte Circeo: una breve ma sofferta discesa sulla passerella a scalini di legno con le bici cariche (oltremodo cariche), qualche discussione di rito con bagnini e baristi per lasciarle lì (“Ci sono dei bambini, si potrebbero far male”, ci dicono) e il blu del Tirreno è pronto ad accoglierci a braccia aperte.
“Qui non tocco, non mi sento sicura”, dice Laura. “E infatti non devi toccà, sennò come fai a affogà?”, le dice Massimo, vena polemica ufficiale della compagnia.
Un paio d’ore scorrono nel relax e nella salsedine.
Poi ci accorgiamo di avere ancora 80km dopo la ventina già fatta prima del mare, e l’orologio si mostra impietoso nel segnare mezzogiorno e mezza: è il momento dei saluti, Alessandra resta in spiaggia, a noi tocca la strada.
Costeggiamo il profilo del gigante addormentato, il Monte Circeo, nella cui silhouette taluni hanno preferito vedere la maga Circe, altri Benito Mussolini – ognuno ha la propria, personale fantasia. La macchia mediterranea ci avvolge col suo frescore fino a San Felice.
SAN FELICE CIRCEO – villini bianchi a due piani, mura ondulate e bar: odore di crema abbronzante e bambini urlanti, il tempo di sorpassare il Cotral e una solitaria Madonna votiva e ci lasciamo la ridente località alle spalle – troppo ridente. Viene quindi il turno della Pontina, lungo nastro d’asfalto dritto che per fortuna ci lascia lo scampo di una larga corsia d’emergenza tenendoci a distanza di sicurezza dai Tir. Qui suonano sempre. Suonano a prescindere, solo per il fatto che ti vedono per strada, e non importa se tu sia già spalmato a destra. Suonano. La bici comincia sempre di più a essere un bug di sistema nel meccanismo autocentrico.
TERRACINA – 15 km di rettilineo e gli occhi ci si riempiono dell’estremità morente dei Monti Aurunci, che collassano in mare all’altezza di Pisco Montano, un faraglione a picco sul mare che segna l’ingresso in città. Qui l’Appia si fa largo tra le rocce grazie alla caparbietà di Traiano – caparbietà pagata dai suoi schiavi – che fece tagliare la parete per evitare deviazioni. Le strade romane non aggirano l’ostacolo, lo rimuovono.
Lenzuola colorate e pareti scrostate segnano i riflessi di un passato glorioso e decadente, condito dall’abilità di adattamento ai cambiamenti umani. In altre parole, siamo più vicini a Napoli che Roma.
E’ l’ora di pranzo, e ci concediamo il lusso di mettere le zampe sotto a un tavolo, anche perché il posto e l’occasione lo richiedono: la cooperativa dei pescatori di Terracina è per noi oasi di fritti misti a prezzo modico e totani scrocchiarelli, oltre che un porto sicuro che ti fa passare la voglia di pedalare.
Nella migliore tradizione sportiva e salutista, il vino bianco ghiacciato ci aiuta a passare le ore più calde. Giove Anxur, custode del Tempio duecento metri sopra di noi, sta a guardare e disapprova in silenzio.
Il sole è implacabile, e Agnese inizia ad assumere tutte le sfumature del rosa, dell’arancio, del rosso e del viola, a chiazze ordinatamente distribuite per afflusso sanguigno interno, che dimostra un notevole senso cromatico.
MONTE SAN BIAGIO – ex dogana del Regno di Napoli, frazione nota per il confine, i dazi e una tradizione di macelleria secolare che vanta la salsiccia di maiale nero. Ci arrivamo sorpassando le bici scassate e arrugginite dei braccianti di ritorno dai campi – bengalesi, pakistani, indiani – che procedono col loro passo scricchiolante per gli assi vacillanti. Qui la bici è un mezzo di lavoro e unica risorsa all’interno di meccanismi perversi di sfruttamento della manodopera agricola, un vero e proprio strumento microeconomico. Altro che cicloviaggiatori, qui si tratta di sopravvivenza.
SPERLONGA – Dopo la dogana borbonica il paesaggio si veste a festa, e si fa acerbo e profumato: scogliere a picco sul mare, pini che sfidano la gravità, e più in basso un blu che si fa sempre più intenso. La strada è un serpente che a volte si tuffa in brevi gallerie, a volte si piega all’improvviso per scartare un picco roccioso, a volte si ritrova soffocata dal traffico dei camion di passaggio. Da qui, Monte Circeo ritorna l’Isola Eea, e la sua sagoma nebbiosa appare lontana dalla terraferma e baciata dal sole, lo stesso dio Sole di cui era figlia la maga Circe. Sperlonga è una timida manciata di casette bianche che sembrano lanciate e conficcate sulle ultime alture degli Aurunci prima del loro tuffo nel Tirreno. Nel centro turistico, una signora ci aiuta a riempire le borracce da una fontana, mentre sua figlia si diverte a innaffiarci con lo stesso getto.
La nostra pedalata è costante, e riprende vigore una volta digerito il pesce di pranzo. Ma c’è ancora un po’ di strada da fare.
GAETA – Ci appare a tradimento dietro un rilievo, svelando il profilo reciso di netto di Monte Orlando, addossata e fitta di antiche costruzioni in pietra grigia: pare una città di pirati. Ma il pomeriggio inizia la sua parabola discendente, Ennio ci aspetta a Minturno e non c’è tempo per un’altra sosta. Murales sul lungomare fiorito ci accompagnano all’uscita del suo porto.
FORMIA – l’Appia si fa nervosa e intasata, ed entriamo nel centro abitato costeggiando l’ordinaria di fila di auto impegnate nella liturgia della movida estiva. Usciamo più guardinghi di prima, e con meno fiducia nei confronti della viabilità.
SCAURI
Una serie di rotatorie e bar affollati all’ora dell’aperitivo saluta il nostro ingresso a Scauri, come fosse una parata. La strada è grigia ma allegra nella luce del tramonto. Primi sguardi incuriositi al nostro passaggio, l’effetto marziano comincia a farsi più forte.
MINTURNO
La salita per Minturno è una scorrettezza etica e morale nei confronti dei 100 km percorsi nell’arco della giornata, del sole e del vino bevuto. Le sue pendenze improvvise ci fiaccano per gli ultimi 3 km che si inerpicano con arroganza verso il paese vecchio, che steso in collina ad ammirare il mare.
Arriviamo quindi da Ennio verso le 8 di sera, e col poco fiato rimasto lo ringraziamo per l’ospitalità.
“Come sta Raffaella? L’ho vista un paio di mesi fa a Barcellona, l’ho trovata bene”
“Sì, sta bene, si vive bene lì. E voi siete stanchi? Vi ho lasciato un po’ di cose in frigo, vi potete fare una pasta se volete.
Il padre della mia amica ci accoglie quindi in casa, in un posto in cui gli occhi annegano nel mare e negli ultimi lampi del tramonto, in cui il blu sovrasta tutto. Tra gli ulivi e la collina la serata scorre silenziosa e lieta. La comodità di una casa così non la ritroveremo nei prossimi giorni, conviene approfittarne. C’è pure una chitarra, per rompere il silenzio prima di crollare nei letti (sì, nei letti!).
LE SPIAGGE DELL’ODISSEA, IL CIRCEO E FORMIA
I luoghi della piana pontina sono letteralmente infestati di storie mitologiche greche, essendo spiagge adatte allo sbarco di girandoloni come Ulisse – pardon, Odisseo. In questa seconda tappa ne abbiamo ben due, che racconteremo in ordine cronologico invece che geografico. Guarda caso, sarebbero inversi. Ma visto che la sequela delle peregrinazioni nel Mediterraneo dell’eroe greco seguiva una rotta via mare da sud verso nord, mentre noi pedaliamo accaldati da nord verso sud, sarà più opportuno narrare dapprima il suo sbarco nei pressi di Minturno, dove ci siamo fermati stanotte, e poi quello sull’Isola Eèa – che tra l’altro ha avuto anche conseguenze un po’ più lunghe.
Del primo sbarco non c’è moltissimo da dire: le ridenti sponde di Formia e Minturno, che nei secoli successivi hanno visto Ciceroni esuli e fuggenti accasciarsi a terra colpiti dai sicari di Augusto, al tempo delle vicende narrate da Omero erano abitate da una popolazione selvaggia e dedita al cannibalismo, i Lestrigoni.
Loro capostipite era il re Lamo, e leggenda vuole che nella loro terra il giorno e la notte si susseguissero così rapidamente che i pastori che riportano le greggi nelle stalle al calar del sole diano la voce a quelli che si preparano a uscire all’alba.
Tra questi anfratti marini gli ignari superstiti della flotta di Odisseo, che proveniva da altre esperienze poco edificanti in Sicilia – Polifemo nel frattempo era ancora all’oftalmico – decisero di approdare per fare provviste, scegliendo l’insenatura naturale del porto di Telepilo, più o meno nel luogo in cui oggi si trova Formia.
Alcuni compagni di Odisseo si avventurarono su per uno scosceso sentiero, dove incontrarono una fanciulla che attingeva acqua a una fonte: si trattava della figlia di Antifate, re dei Lestrigoni nonché crudele gigante antropofago. Un bel curriculum, insomma. L’eroe greco, più cauto, restò a bordo.
E in effetti ci aveva visto lungo: giunti nella sua reggia, fu loro teso un agguato dove un paio vennero sbranati e cucinati, mentre altri riuscirono a mettersi in salvo. Lo stesso Odisseo riuscì a malapena a fuggire tagliando la gomena della sua nave, riprendendo il largo con pochi compagni.
Questo per dire, vatti a fidare dei Lestrigoni.
Una cinquantina di chilometri di navigazione verso nord, ed ecco che Omero ci descrive lo sbigottimento irreale dei marinai all’alba:
« Αἰαίην δ’ ἐς νῆσον ἀφικόμεθ’· ἔνθα δ’ ἔναιε
Κίρκη ἐϋπλόκαμος, δεινὴ θεὸς αὐδήεσσα,
αὐτοκασιγνήτη ὀλοόφρονος Αἰήταο· »
« E su l’isola Eèa sorgemmo, dove
Circe, diva terribile, dal crespo
Crine e dal dolce canto, avea soggiorno. »
(Odissea, libro X, vv.135-7, trad. I. Pindemonte)
Un’isola. Il promontorio del Circeo, unito alla terraferma da un solo lato su quattro, era un’isola. Semiavvolta dalle nebbie, le sue origini le tradisce ancora oggi, quando pare staccarsi in un anelito verso le aride distese blu del mare, invocando il suo passato strappato dalla bonifica delle paludi pontine.
Qui è dove in un tempo mitologico senza tempo regnava la maga Circe, figlia del Sole Helios, qui è dove il sole svegliava ogni cosa tramite Eos, l’Aurora, non per niente l’isola si chiamava Eèa.
Evidentemente il fatto di essere ignari era una prerogativa di Odisseo e compagnia, ma altrettanto evidente è giusto così, che gusto ci sarebbe stato altrimenti?
Ed è così che, ancora coi morsi dei Lestrigoni stampati qua e là, Euriloco con una ventina di uomini sbarcarono a esplorare l’isola.
Dopo aver vagato per fitti boschi di querce, i compagni di Odisseo giunsero al palazzo della maga, esperta d’ogni arte magica e nemica del genere umano. Ma certe cose non si danno a vedere subito, al limite ci sono impercettibili segnali che qualcosa non gira come dovrebbe.
Ad esempio, tutto attorno alla reggia vagavano lupi e leoni, che invece di attaccare i compagni di Odisseo, li accolsero con mille feste – più o meno quelle che fa un umano trasformato in bestia vedendo un altro essere umano.
Circe interruppe le sue attività consuete, il telaio e il canto, per accogliere gli uomini con un gran sorriso malizioso. La dea offrì agli uomini formaggio e miele, vino e orzo: ma assieme alle vivande erano mescolati farmaci maligni.
Il solo Euriloco esitò, mentre i compagni, rapiti, consumarono il pasto felici. Fu allora che con un colpo della sua verga Circe mutò i marinai in porci: e con un gran riso maligno, li rinchiuse nella stalla gettando loro ghiande. Il prudente Euriloco, sconvolto, riuscì a tornare alla nave e a riferire tutto a Odisseo, che armato della sola spada e senza un piano meglio precisato si avviò in preda a propositi di vendetta.
A placarlo – e a salvarlo – fu però Ermes, che oltre a fargli capire che non c’era una grande progettualità nel suo operare forse aveva anche bisogno della molys, un’erba magica che avrebbe neutralizzato gli incantesimi di Circe. E qui abbiamo la testimonianza che senza raccomandazioni divine e senza doping non vai molto lontano.
Sulla corrispondenza di questo molys nella botanica attuale non abbiamo molte informazioni, né sappiamo se è stato legalizzato. Omero ne parla come di un bianco fiore profumato dalla nera radice, riconoscibile e utilizzabile soltanto dagli dei.
Quando la maga batté la verga su Odisseo, e vide fallire il suo incantesimo, grande fu il suo sgomento: non gli restò allora che inginocchiarsi e supplicare l’eroe, che nel frattempo aveva sguainata la spada, di risparmiarle la vita, promettendogli il suo letto e il suo regno.
Odisseo accettò con una certa soddisfazione il pacchetto in offerta, ponendo come condizione il riscatto dei suoi compagni, ché probabilmente gli servivano più da umani e di ghiande a bordo ne aveva poche. E anzi, prolungò il suo soggiorno al Circeo per tre anni, uno per figlio che Circe gli diede: Agrio, Latino e Telegono. Quest’ultimo avrà conseguenze nefaste per lui, ma racconteremo di lui dalle parti di Itaca.
Ma tre anni per uno come Odisseo erano fin troppi. Urgenza e irrequietudine per seguire virtute e canoscenza, un ingegno troppo multiforme, niente villeggiatura a Sperlonga che quest’anno ho voglia di cambiare, e così via. Tempo di ripartire, Circe, tesoro, esco a prendere le sigarette e via.
Una specie di Sehnsucht ante litteram. Come dice Guccini,
Bisogni che lo afferri fortemente
che, certo, non appartenevo al mare
anche se Dei d’Olimpo e umana gente
mi spinsero un giorno a navigare
e se guardavo l’isola petrosa
ulivi e armenti sopra a ogni collina
c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa
c’era l’anima mia che è contadina;
un’isola d’aratro e di frumento
senza vele, senza pescatori,
il sudore e la terra erano argento
il vino e l’olio erano i miei ori.
Ma se tu guardi un monte che hai di faccia
senti che ti sospinge a un altro monte,
un’isola col mare che l’abbraccia
ti chiama a un’altra isola di fronte
e diedi un volto a quelle chimere
le navi costruii di forma ardita,
concavi navi dalle vele nere
e nel mare cambiò quella mia vita
ma il mare cambiò quella mia vita
ma il mare trascurato mi travolse:
senza futuro era il mio navigare
Ma nel futuro trame di passato
si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e al gusto del salato
brucia la mente
e ad ogni viaggio reinventarsi un mito
a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito
sempre più in fondo
E andare in giorni bianchi come arsura,
soffio di vento e forza delle braccia,
mano al timone e sguardo nella pura
schiuma che lascia effimera una traccia;
andare nella notte che ti avvolge
scrutando delle stelle il tremolare
in alto l’Orsa è un sogno che ti volge
diritta verso il nord della Polare.
E andare come spinto dal destino
verso una guerra, verso l’avventura
e tornare contro ogni vaticino
contro gli Dei e contro la paura.
E andare verso isole incantate,
verso altri amori, verso forze arcane,
compagni persi e navi naufragati;
per mesi, anni, o soltanto settimane?
La memoria confonde e dà l’oblio,
chi era Nausicaa, e dove le sirene?
Circe e Calypso perse nel brusio
di voci che non so legare assieme.
Mi sfuggono il timone, vela e remo,
la frattura fra inizio ed il finire,
l’urlo dell’accecato Polifemo
ed il mio navigare per fuggire.
E fuggendo si muore e la morte
sento vicina quando tutto tace
sul mare, e maledico la mia sorte
non trovo pace
forse perché sono rimasto solo
ma allora non tremava la mia mano
e i remi mutai in ali al folle volo
oltre l’umano.
La vita del mare segna false rotte,
ingannevole in mare ogni tracciato,
solo leggende perse nella notte
perenne di chi un giorno mi ha cantato
donandomi però un’eterna vita
racchiusa in versi, in ritmi, in una rima,
dandomi ancora la gioia infinita
di entrare in porti sconosciuti prima
(F. Guccini, Odysseus)
reportage Claudio Mancini