Minsk.
Capitale della Bielorussia, città fenice risorta sulle macerie, dopo esser stata distrutta durante la Grande guerra patriottica, nome con cui i russi chiamano la Seconda guerra mondiale. Minsk, città di vialoni, enormi palazzi del realismo socialista e monumenti di partito. Il partito di allora e quello attuale, chè, come si sa, il presidente Lukasenko ha metodi solo vagamente democratici. Ci sono arrivata con gran fatica, attraversando l’estremo oriente polacco e metà di questa nuova nazione.
Da Varsavia al confine mi sono immersa in una realtà rurale che stupisce esista ancora, nel cuore dell’Europa: campi, cascine, fienili di legno, fango e foreste antichissime. Ho attraversato una parte della Riserva di Bialowieza, che conserva ancora flora e fauna che popolavano il continente prima dell’insediamento umano. Non ho visto i bisonti e i konik, ma solo perché la mia attenzione è stata tutta assorbita dal paesaggio umano e dall’eredità storica di queste terre. Le radici hanno bevuto sangue per secoli, sparso nelle lotte tra Granducato di Lituania-Polonia e Russia, sparso dai francesi di Napoleone, dai nazisti, dai russi ancora. Le stragi di contadini, le rappresaglie e i pogrom erano fatto quasi quotidiano, e il dolore vibra nell’aria, sfiorando la corteccia di questi alberi neri. Hanno assistito all’orrore dei lager come Treblinka, che in pochi mesi ha inghiottito quasi un milione di anime. Hanno visto la neve macchiarsi di rosso e file di eserciti come formiche marciare verso la morte, da una parte e dell’altra.
Pedalando nel silenzio surreale pare quasi di intravedere strappi di anime lacerate, nel chiaroscuro dei rami.
Ma c’è anche un calore umano che sa sconfiggere queste ombre. Sono le persone come Lejla, anziana donna di discendenza tartara che vive in un villaggio ancora a maggioranza musulmana. Orgogliosa della sua tradizione, figlia lontana di nobili guerrieri dell’Orda d’oro poi alleatisi ai polacchi. Da lei ho trascorso una serata dolcissima, con i suoi panini al miele appena sfornati e il suo tè nero non filtrato, alla turca. Europa è anche questo. La storia agisce al di là di ogni pregiudizio.
Poi è venuto il momento di passare il confine bielorusso. Lasciati i campi e i boschi, mi sono trovata catapultata su una grande arteria di freddo asfalto, tra auto, tir e volti scuri. Controlli lunghissimi, perquisizioni, follia burocratica sterile in mano a uomini in divisa dall’espressione di cemento. Questo è stato passare da una nazione all’altra. Per fortuna la prima città, Grodno, si è rivelata nella sua austera bellezza, tra un carro armato con falce e martello e una chiesa, tra una statua di Lenin e una sinagoga.
Da lì a Minsk ho attraversato di nuovo la foresta originaria, qui ancora più imponente, che sembra quasi sul punto di inghiottire la strada; poi campi, kolchoz, baracche di legno e villaggi senza acqua nelle case, senza strade asfaltate, che vivono fuori dalla storia in un lento scorrere di stagioni. Anche qui la terra è imbevuta di sangue, il medesimo che ha reso nero il fango polacco. Ma il cielo è d’azzurro immenso e il sole scalda, benevolo. Tutto ride una risata di colori vivi e il silenzio non è inquietante, ma placido.
Attraversare questi luoghi non è semplice, dal punto di vista materiale: spesso, per un’intera giornata, non si trova nulla dove acquistare qualcosa da bere e da mangiare. La natura tende a dominare incontrastata per decine e decine di kilometri, le strade sono in gran parte sterrate, l’acqua non è quasi mai potabile per noi “occidentali” senza difese e anche il cibo, sfuso e mal conservato, rischia di regalare lunghe notti di coliche. Si parla solo in russo. Anzi, non si parla affatto; la gente ha un’espressione spesso lugubre, dettata dalla fatica di vivere con stipendi da miseria nonostante gli orari di lavoro massacranti; fanno anche dell’autoironia i bielorussi, su questo loro appartenere ad una Repubblica popolare della Mestizia. Talora, nei prati e nei fossi, si vedono gli alconauti dormire (o morire?) nei loro vapori di vodka, mentre i passanti ridono di quelle sbronze che durano giorni interi (zapoj è la parola russa per indicare questa condizione obliqua, storta e priva di coscienza). Insomma, questa è la Bielorussia.
Un luogo di paesaggi splendidi, di natura incontaminata, di fatica e storia che non ha fatto mai sconti a nessuno. Un volto altro dell’Europa, che ha occhi sottili e stanchi, che fatica a riconoscere se stessa, che sta scomparendo, inghiottita dalla globalizzazione di questo mondo che vuol esser tutto uguale, falsamente democratico. Tra due giorni passerò in Russia, e tra una settimana entrerò in Mosca, meta ultima di questo viaggio. Ormai ci siamo, quasi, e il senso dei duemila kilometri abbondanti finora pedalati (che diventeranno tremila), quel Godot che finora è sfuggito, sempre un passo avanti, ora è qui vicinissimo, a portata di mano. Ancora solo qualche giro di pedale, qualche cielo, qualche momento d’ombra, di forze e di forse.
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Reportage di Rita Sozzi