Transardinia giorno 2 da Berchidda ad Alghero.
- distanza: 119 km
- dislivello in ascesa: 1606 m
- fondo stradale: 70% asfalto, 30% sterrato
- partenza: Berchidda, camping “Belvedere”
- arrivo: Alghero, camping “Mariposa”
Dopo la violenta pioggia notturna, il primo mattino a Berchidda ci svegliamo nell’umido vivo e ventoso: i colori
sono più vividi che mai, l’aria frizzante, le nuvole gonfie e dense. Partiamo dalla pineta del camping Belvedere lasciando al fischio dei freni bagnati il compito di rallentare la nostra discesa verso il paese e la colazione; davvero ieri sera abbiamo fatto questa pendenza in salita?
Col sole, Berchidda assume tutto un altro aspetto: è un paesino vibrante e allegro, nelle cui vie le donne in nero passeggiano a braccetto, salutate dal macellaio sulla porta della sua bottega. Poggiamo le bici cariche sul muro di un bar, attirando gli sguardi curiosi degli avventori abituali e qualche cortese, discreto “buongiorno”. L’uomo dietro al bancone si prodiga in cornetti e informazioni per evitare la superstrada, e iniziamo ad apprendere che il concetto di informazione stradale qui è assolutamente influenzato dall’abitudine di spostarsi in macchina. “Altra strada non ce n’è”, ci ripete sconsolato.
Questo, tradotto, non vuol dire che non ci sia, bensì che esistono strade secondarie più lunghe rispetto alla Olbia/Sassari. Il che è proprio ciò che cerchiamo, ovvero il tracciato tortuoso e affascinante senza una macchina che è segnato nel gpx.
“Altra strada non ce n’è”.
Alla nostra insistenza, lui ci indirizza prima verso Oschiri, poi verso il Lago di Coghinas, forse chiedendosi tra sé e sé per quale motivo dovremmo mai allungare (e forse pure per quale motivo dovremmo mai spostarci in bici). Mai scelta fu più suggestiva.
Dopo l’ulteriore discesa verso Oschiri imbocchiamo una strada in leggera salita, tagliando il percorso della Olbia/Sassari ancora una volta: qui non passa una macchina e il cielo sardo si dipana in tutta la sua immensità. Dietro i rilievi aguzzi e aspri arriva il vento del mare da Ovest, quasi cercasse di sfuggire ai suoi guardiani antichi e petrosi: è lì che dobbiamo arrivare stasera, la tappa di oggi sarà dura, molto dura.
Dietro una curva, si cela un complesso monastico, il Santuario della Madonna di Castro: un mucchietto di mattoni rossi in cima a un colle, con un giardino in cui la scena è dominata da un maestoso sicomoro.
Un signore tarchiato e bruno ci accoglie felice all’entrata: si chiama Mario, ci racconta immediatamente di essere nato proprio sotto quell’albero, si dilunga nelle lunghe traversie burocratiche dell’ ”Intendenza per il turismo” che mandò “quelli della televisione qui”, una volta, tra lo sdegnato e l’ammirato.
È evidente che non riceva molte visite e che gradisca molto la compagnia degli avventori di passaggio; parla tanto, in maniera sconnessa, ma non in dialetto. Nei suoi occhi si percepisce sempre più la solitudine, e la gioia di vedere facce nuove.
Ci mostra con orgoglio l’interno della bellissima chiesa in pietra viva, che lui custodisce con devozione da sempre; poi prorompe in una risatina soffocata, quasi un rantolo, apparentemente immotivata. E invece dietro quel suono stridente c’è tutto il suo entusiasmo per quel quarto d’ora di compagnia.
Tra il commosso e lo stupito, lo salutiamo e proseguiamo in direzione del lago di Coghinas.
Il paesaggio è quello dell’Amazzonia, le sue acque sono verdastre e fangose dopo le piogge di metà settembre: attraversiamo uno stretto ponte di metallo arrugginito nella maestosità del verde silente.
Una deviazione lascia più di una spina nel copertone posteriore di Giancarlo, e la foratura che gli capita nei pressi di Chiaramonti è solo la prima di una lunga serie nei giorni a venire.
Poi, nuove salite: la strada per Ploaghe è altalenante, mischia tratti pianeggianti da far west e nuvole basse con scalate e discese nella vegetazione brulla. Una nuova discesa dopo il paese ci rivela nuove pendenze da affrontare ancora prima di poter vedere il mare, nonostante il suo odore sia vicino e penetrante; nel frattempo, il pomeriggio si dipana nella nuova salita per Florinas, dove cogliamo dei fichi neri a bordo strada per continuare con una marcia in più. Nuova foratura per Giancarlo, nuova pausa forzata: un gruppo di ragazzi in mountain bike ci dà una mano con il compressore, velocizzando le operazioni di rigonfiaggio della ruota. E l’ospitalità sarda non tarda a farsi vedere, quando uno di loro con enfasi e vivacità ci propone una scorciatoia che ci risparmia una quindicina di chilometri!
La controparte è che ci fa guadagnare un sacco di dislivello, con violenti saliscendi, insegnandoci che le indicazioni vanno sempre filtrate considerando il soggetto che le fornisce. In questo caso, da chi va in MTB era normale aspettarsi una strada bellissima, sterrata, senza traffico, ma ricca di pendenze marcate sia in salita che in discesa. E va benissimo così.
Con un meraviglioso sentiero a fondovalle tagliamo Usini risalendo direttamente per Ittiri, dopo aver attraversato una vallata meravigliosa dove non sembra esserci traccia umana.
La luce del tramonto ci vede entrare nel paese di Usini, quando manca ancora una trentina di chilometri ad Alghero: ma ormai è tutta discesa.
“Tramonti di pietra su strade di fango, cercando la luna cercando”: ed ecco che risponde all’appello, e appare tonda, gialla e immensa a rischiararci la strada tra i pascoli.
L’ultima parte di questa lunghissima tappa avviene nella semioscurità, fortunatamente in presenza di un traffico piuttosto attento e disciplinato, fino alle luci scintillanti di Alghero, i cui bastioni catalani ci guidano fino al camping “Mariposa” e al meritato riposo.