La traccia della Ciclovia dell’Appennino si sviluppa per 3.100 chilometri dalla Liguria alla Sicilia, prevalentemente su strade provinciali e a bassa intensità di traffico. Abbiamo cercato di fare tesoro e valorizzare una caratteristica negativa dell’Appennino, cioè il fatto di essere un territorio soggetto a spopolamento da tempo immemorabile. D’altro canto, questo territorio è caratterizzato da collegamenti capillari fra le migliaia di piccoli centri abitati che su di esso insistono, una rete impressionante di stradine che oggi rappresentano delle ciclovie di fatto: sono già ora strade con il limite di velocità a 30 kmh, per le quali è previsto un ente gestore che dovrà provvedere alla loro manutenzione, ma sulle quali il traffico veicolare è quasi nullo, limitato spesso a qualche mezzo agricolo, qualche scooter e poche auto. I paesi del centro-nordeuropeo hanno infrastrutturato nel corso degli anni passati il loro territorio con ciclovie dedicate, una scelta lungimirante che ha fatto la fortuna del cicloturismo in Germania o in Austria, ma che ha potuto contare su un’orografia di quei paesi molto differente rispetto alla nostra, non a caso le ciclovie più frequentate corrono in pianura lungo gli argini dei grandi fiumi, il Danubio, il Reno, la Drava, l’Elba e così via. Il nostro Paese è diverso ed è arrivato alla scelta di lavorare sul cicloturismo con grande ritardo. Sarebbe uno sbaglio copiare oggi il modello mitteleuropeo: troppo costoso e troppo lungo da realizzare. Al contrario, si tratta invece di sfruttare al meglio quelle che sono le caratteristiche peculiari del nostro Paese: quella cioè di essere un luogo abitato da millenni in ogni suo territorio, anche il più sperduto, e quella di avere una rete viaria piccola e capillare che unisce tutti questi luoghi. Con la Ciclovia dell’Appennino abbiamo messo a valore queste caratteristiche.
Io credo sia necessario lavorare più sul software che sull’hardware, lavorare cioè sulla creazione di quella rete di servizi necessari a sviluppare il cicloturismo più che sull’infrastrutturazione, ovvero la creazione di ciclovie. Queste nei fatti già ci sono, sono i chilometri di piccole stradine asfaltate che collegano i centri abitati dell’entroterra, ma hanno bisogno di segnaletica, di aree di sosta e ricarica per le e-bike, di piccole ciclofficine, di cooperative per il trasporto dei bagagli e di furgoncini per il recupero dei ciclisti in difficoltà, di qualificazione delle strutture turistiche e così via. È un lavoro che da tante parti è già stato avviato con successo, penso alla Ciclovia dei Parchi della Calabria o all’exploit della Via Silente, il percorso di circa 600 chilometri che lega i più bei paesini del Cilento. Ma anche a quello che è stato fatto nella Marche con le strade di Marca o in Romagna con la Ciclovia del Savio che solo qualche mese fa si è aggiudicata l’Oscar del Cicloturismo 2022. Accompagnare questo fiorire di iniziative, stimolarne la crescita, favorire la nascita di nuove esperienze sarebbe il vero progetto rivoluzionario che doterebbe finalmente il Paese di prodotti cicloturistici originali e innovativi.
Percorrere la Ciclovia dell’Appennino è un po’ come imbroccare il famoso binario 9 ¾ di Harry Potter, quello che i babbani non riuscivano a vedere e che portava alla scuola di Hogwarts, nel mondo della magia. Con la bicicletta si ottiene un po’ lo stesso effetto, si entra in quella che noi chiamiamo “l’Italia che non ti aspetti”, un mondo completamente diverso da quello che si può vedere dall’automobile o in sella a una moto. L’Appennino poi è un territorio dove sono custoditi i gioielli più preziosi del nostro paese: pensa che si attraversano ben 56 parchi e aree protette, si passa vicino a luoghi mitici come la pietra di Bismantova, che Dante utilizzò per ambientare il suo Purgatorio, c’è una chiesa di un piccolo paesino in Calabria che ospita un dipinto murale (l’unico al mondo) attribuito a Renoir, sempre in Calabria è possibile ammirare le tele di Mattia Preti, un pittore seicentesco i cui dipinti sono esposti nei più famosi musei del mondo, dall’Hermitage di San Pietroburgo al Getty Museum di Los Angeles. E poi in Basilicata c’è la giostra più lenta del mondo e il ponte tibetano più lungo del mondo, in Umbria e in Toscana si pedala nei luoghi di San Francesco, di Giotto, di Michelangelo, di Piero della Francesca. In Molise si scopre l’area archeologica dell’antica Saepinum, uno dei luoghi più importanti del nostro Paese perché da queste parti per la prima volta venne utilizzata la parola Italia per definire la porzione di territorio sulla quale governavano i dodici popoli, i Sanniti, i Marsi, i Piceni e altri che avevano stretto un patto d’alleanza contro Roma. Insomma l’Appennino non è solo la spina dorsale del Paese, ma ne è anche l’anima, lo scrigno che custodisce i beni più preziosi e … anche quelli più gustosi, perché quando si parla di enogastronomia questi luoghi sono veramente il top. D’altronde pedalare è la cosa migliore che si possa fare per vincere i sensi di colpa quando ci si mette a tavola.
Sebastiano Venneri
Responsabile Turismo ed Innovazione territoriale Legambiente
Su questo percorso Sebastiano ha scritto un volume, leggi l’articolo qui.